02. Il puzzle invisibile

Pubblicato il 13 Giugno 2019 alle 15:39 Autore: Nicolò Zuliani
02. Il puzzle invisibile

L’uomo comunica costantemente chi è, chi pensa di essere e chi vorrebbe essere. Un osservatore attento sa tracciare il profilo psicologico di qualcuno in meno di tre secondi; un sarto, il maitre di un ristorante prestigioso, il commesso di un negozio importante, un bravo venditore capiscono al volo che tipo di cliente hanno davanti e alzano o abbassano la comunicazione per mettersi al loro livello, perché sono professionisti.

È l’antica arte della diplomazia o mediazione, quella che evita le guerre, stabilisce tregue, fa siglare la pace, permette di convivere e che naturalmente in Internet è vista con disgusto dagli estremisti che lo chiamano cerchiobottismo. Eppure è per diplomazia che il vestito formale (quello da ufficio o da cerimonia) è rimasto più o meno invariato negli ultimi 300 anni: per evitare di comunicare all’altro messaggi che possono risultare fuori luogo o controproducenti.

Noi comunichiamo anche quando non vogliamo.

Ora, il corpo di un essere umano è il contenitore della sua identità. O dell’anima, se ti senti poetico. Più un capo d’abbigliamento è vicino al corpo e più istintivamente rappresenta il nostro io interiore. Viceversa, più è distante, più è rivolto al mondo esteriore. La camicia dice quel che abbiamo in animo, calzini e cravatta dicono la nostra personalità, pantaloni, giacca (o felpa, o maglione) quello che vogliamo trasmettere.

Le scarpe sono un discorso a parte e ne parleremo dopo.

Penso oramai tutti sappiano che che ogni colore ha un significato preciso, in psicologia. I colori formali sono azzurro o bianco per l’interno, blu e grigio scuro per l’esterno. È un messaggio semplice: dentro sono pulito e sincero, fuori sono calmo, affidabile e/o neutrale: il ritratto della persona con cui vuoi parlare di soldi. Ecco perché chi normalmente sta in jeans e maglietta quando deve mettersi formale sceglie camicie nere o scure: c’ha una gran paura, non è a suo agio, e sceglie un colore che sente più affine al suo stato d’animo: uno che nasconde. Se poi vuole a tutti i costi mostrare che sa cosa sta facendo, mette cravatta e abito più chiari: sono sincero, giuro!

Lo vedi ogni giorno.

Prendi i quarantaqualcosa che vogliono vestirsi da adulti ma han paura di sembrare vecchi: scelgono sempre la maglietta coi loghi nerd sotto la giacca, mai camicia e cravatta sotto la felpa. Perché sono messaggi differenti: il primo è “sono un bambino che cerca di vestirsi da adulto”, il secondo è “sono un adulto che s’è appena rilassato”. Un trentenne in cravatta e giacca – magari con stoffe classiche – con jeans sdruciti e scarpe da ginnastica è figo, perché dice “non ho paura di diventare adulto”. Viceversa, uno con scarpe eleganti, pantaloni cinque tasche e maglietta truzza starà da schifo, perché dice “sono un immaturo che fa il ripulito”.

Ho sempre associato mio padre al colore verde scuro, perché a lui piaceva un sacco. Quand’è mancato, all’improvviso mi sono accorto che mi ero riempito il guardaroba di verde scuro. Giacche, pantaloni, maglioni. Ora il capofamiglia ero io e sentivo il bisogno di gridarlo a tutti – perché all’epoca avevo paura di non esserne all’altezza. Ho tenuto poche camicie di mio padre; ma l’Ulster militare cucito a mano nel 1957?

Guai a chi me lo tocca. È la corazza tra me e il mondo.

Finisce così la seconda lezione, che ricapitoliamo: “Leggiamo” le persone da dentro a fuori e da sopra a sotto. Lo sguardo parte dalla faccia e scende; prima vede il colletto della camicia, poi quello che c’è sopra, poi i pantaloni e le scarpe. Più un capo è attaccato alla pelle, più dice quel che nascondiamo. Più è distante, più dice quello che vogliamo far sapere.

La prossima volta parleremo di scarpe da uomo, il jolly che bypassa tutto questo, e finalmente entreremo nel pratico. Tenete duro, il livello tutorial è quasi terminato.

L'autore: Nicolò Zuliani

Veneziano, vivo a Milano. Ho scritto su Men's Health, GQ.it, Cosmopolitan, The Vision. Mi piacciono le giacche di tweed.
Tutti gli articoli di Nicolò Zuliani →