Il partito repubblicano a un crocevia: che fare del trumpismo?

Pubblicato il 20 Febbraio 2021 alle 16:16 Autore: Giacomo Bridi

Dopo la sconfitta elettorale di Donald Trump e l’assalto da parte di alcuni estremisti alla sede del potere legislativo della più longeva democrazia mondiale – il Campidoglio – sono venuti al pettine dei nodi che si annidavano da tempo nel partito dell’ex Presidente. Più che di una ‘analisi della sconfitta’ all’italiana, tra i repubblicani si fa strada una crescente crisi identitaria: che fare del trumpismo? Come trattare una corrente politica dai toni accesi e che spinge (troppo) a destra i repubblicani e la propria base elettorale?

Tornare alla “linea dell’establishment”  all’insegna del conservatorismo tradizionale o continuare sulla strada del populismo, della polarizzazione e della retorica incendiaria? I segnali mostrano un partito incerto, attraversato da visioni divergenti sul modo stesso di fare politica e di rapportarsi alle istituzioni.

In questo contesto sono emblematiche le vicende di due donne che incarnano visioni opposte di ciò che significa “essere repubblicani”: Liz Cheney e Marjorie Taylor Greene. Ma chi sono, e perché sono balzate alle cronache nazionali?

Liz Cheney: il volto dell’establishment

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Classe 1966, primogenita dell’ex Vicepresidente Dick Cheney, dopo una carriera al Dipartimento di Stato ha scelto di dedicarsi alla politica candidandosi alla Camera dei Rappresentanti nel 2016. A partire dal 2018 è capogruppo dei repubblicani alla Camera (House Republican Conference), posizione gerarchicamente appena inferiore a quella di Minority Leader.

Nonostante la sua ascesa politica sia coincisa con quella di Donald Trump, non ne condivide la retorica infiammatoria ed è stata uno dei pochi esponenti del partito a criticarlo anche duramente nel corso della presidenza. Appartiene all’ala tradizionalista e conservatrice del partito, seguendo il filo rosso libertà d’impresa-compressione dell’intervento pubblico-bassa tassazione-conservatorismo sociale.

Oggi, è uno dei volti più celebri dell’establishment, e progetta di riportare il partito sulla strada di Reagan e dei Bush. Ma quella che fino a pochi mesi fa era diffusamente considerata un astro nascente del partito, tanto da essere considerata un nome papabile per la Presidenza, è diventata una figura molto controversa all’interno dei repubblicani.

Marjorie Taylor Greene: devozione a Trump

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Classe 1974, laureata, imprenditrice, Greene è stata eletta per la prima volta nel novembre scorso in un distretto profondamente conservatore nel nord della Georgia. Descritta come uno dei candidati più controversi dell’ultimo ciclo elettorale, si distingue per essere una delle nuove leve che abbracciano lo stile trumpiano, superando Trump stesso in quanto a orientamento.

La particolarità di Greene rispetto alla maggioranza dei suoi colleghi è quella di essere stata personalmente convinta di una serie di teorie complottiste. Ha sostenuto che le stragi nelle scuole di Sandy Hook e Parkland fossero operazioni militari, oltre ad aver raccomandato l’assassinio di agenti dell’FBI e di politici democratici (non ultime Nancy Pelosi e Hillary Clinton).

Un manifesto elettorale la ritraeva armata con sullo sfondo le Rappresentanti progressiste della Squad. Si è espressa con toni razzisti e profondamente antisemiti durante la campagna, oltre ad aver (ovviamente) sostenuto con forza le mai dimostrate teorie di brogli elettorali ai danni di Trump.

La sua retorica è stata oggetto di aspre critiche dalla stessa leadership repubblicana. La sua elezione, insomma, ha simbolicamente aperto le porte della politica al più estremo fanatismo di destra. Ed è la riconferma della trasformazione a più livelli che coinvolge un partito che si specchia ancora in The Donald.

Lo scontro sul trumpismo

Da anni si sospettava che il partito prima o poi avrebbe dovuto conciliare le due correnti al proprio interno. Già nel 2016 si parlava di guerra civile all’interno dei repubblicani, con la condanna aperta di Trump da parte dei passati candidati alla Presidenza Romney e McCain.

Dopo la sua vittoria a sorpresa, le voci critiche sono quasi del tutto sparite, rimpiazzate da un’adorazione quasi incondizionata. Ma la sua vittoria è stata solo il culmine di un cammino verso la radicalizzazione del partito. Quel che è successo nel 2016, insomma, è stata la dimostrazione del potere della base repubblicana, che a partire dall’elezione di Obama aveva iniziato a spostarsi verso posizioni populiste di destra secondo toni familiari anche da questa parte dell’Atlantico.

Nel 2014, il primo smacco all’establishment moderato. Durante le primarie per le elezioni di medio termine, Eric Canter, il leader di maggioranza alla Camera, venne sconfitto da un candidato del Tea Party, Dave Brat. Da allora, i toni della maggior parte dei politici repubblicani sono cambiati, avendo fiutato una situazione politicamente molto diversa dal ‘solito’. In questo frangente vanno lette sia l’elezione di Trump sia il progressivo ingresso di figure estreme nelle fila dei rappresentanti. Ciò che era (ed è) ormai evidente è lo strapotere dell’elettorato delle primarie, proprio quello più radicalizzato che in larga parte ormai rifiuta il classico conservatorismo moderato, ed è influenzato da fonti d’informazione come Breitbart, i talk show sulle stazioni AM, i canali OAN e Newsmax.

I fatti del 6 gennaio, con l’assalto al Congresso da parte di migliaia di fanatici “nutriti di bugie”, hanno reso evidente l’impossibilità per il partito di trovare una tregua pacifica tra una quota crescente di elettorato distaccato dalla realtà e un establishment moderato che tenta di mantenere il controllo assecondandone i fanatismi.

Soprattutto tra i senatori, la voglia di tornare alla normalità sembrava aver spazzato via l’illusione di poter continuare a seguire la linea trumpiana. È stato questo il caso di Liz Cheney, che si è esposta pubblicamente per denunciare il comizio di Trump che aveva preceduto l’assalto. Ma quel che poteva essere un momento per trovare una fine alle divisioni ha semplicemente fatto esplodere le tensioni interne. E così la Cheney ha ricevuto pesanti attacchi dai suoi colleghi quando ha deciso di votare Sì all’impeachement (un voto “di coscienza”, ha sostenuto).

I media conservatori non si sono fatti scappare l’occasione di eliminare un altro membro dell’establishment, il partito repubblicano del Wyoming l’ha censurata ufficialmente e il rappresentante Matt Gaetz della Florida, uno dei più leali alleati di Trump alla Camera, ha persino tenuto un comizio contro di lei a Cheyenne.

Dimostratosi politicamente impossibile attaccare pubblicamente il Presidente (come mostrano i sondaggi), molti repubblicani hanno preferito non affrontare la questione, minimizzandola pubblicamente nella speranza che cadesse velocemente nel dimenticatoio. Per lo stesso motivo gli attacchi a Liz Cheney non si sono mai fermati, con l’ala pro-Trump del partito che chiedeva la sua estromissione dal ruolo di capogruppo.

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Contemporaneamente, i democratici, tutt’altro che reticenti nell’individuare Trump come il mandante dell’attacco, hanno deciso che era finito il tempo della pazienza. Per tutto gennaio i rappresentanti hanno attaccato uno dei personaggi più vicini al trumpismo radicale: la neoeletta Marjorie Taylor Greene.

Mentre nuovo materiale mostrava quanto fosse compromessa con la violenza e le stesse teorie cospirazioniste alla base dell’attacco al Congresso, sono aumentate le voci per rimuoverla dagli incarichi nelle commissioni. Anche alcuni repubblicani si sono spinti a condannarla pubblicamente, come il senatore Portman (Ohio).

Kevin McCarthy, il numero 1 del GOP alla Camera, ha minacciato una censura ufficiale. E così le due donne si sono trovate attaccate da fazioni diverse per motivi opposti. Alla fine, la reticenza ad agire da parte della leadership di partito ha condotto al meeting a porte chiuse del 3 febbraio tra i Repubblicani della Camera. La stessa serata si sarebbero dovute trattare le due questioni. Prima, un dibattito circa la rimozione di Liz Cheney dal suo ruolo di leadership. Forte del sostegno di McCarthy, e sostenendo la libertà di seguire la propria coscienza, è sopravvissuta al voto segreto con un margine più che doppio (145 contro 61).

Più che di sopravvivenza, si può parlare di trionfo. Privatamente quindi buona parte dei membri del Congresso sono d’accordo con la sua linea, ma quasi nessuno si espone pubblicamente temendo forti ritorsioni alle primarie del prossimo anno.

Secondo le aspettative, Marjorie Taylor Greene, la stessa sera, avrebbe dovuto fornire delle scuse e riconoscere come false le teorie complottiste che ha sostenuto per lungo tempo. Dalle testimonianze, sembra che abbia parlato in modo abbastanza soddisfacente per abbastanza colleghi. Questa volta, nessun voto.

La aspettava il voto della Camera intera l’indomani, quando i democratici avevano pronta da votare una mozione per eliminarla dalle commissioni in cui si trovava (tra cui quella sull’educazione): se i repubblicani non avessero agito contro di lei autonomamente, lo avrebbero fatto loro, forti della maggioranza nell’assemblea. L’approvazione è arrivata con 11 defezioni di repubblicani, che si sono uniti ai democratici per punire la Greene. Restano tuttavia 199 altri Repubblicani che l’hanno sostenuta.

È quindi evidente la presenza di almeno 130 rappresentanti personalmente sulla stessa linea della Cheney, ma che temono fortemente le conseguenze politiche di esporsi contro il trumpismo. In questo modo sembra rimandata una volta ancora la decisione sull’identità e la definizione dei repubblicani, mantenendo una a fianco all’altra due correnti sempre meno compatibili.

E contemporaneamente si vede quanto profonda sia l’influenza e la forza che avuto Trump nel cambiare il partito. I sondaggi sulla popolarità di Marjorie Taylor Greene sono ancora pochi e pagano la novità del personaggio, ma sembra sia sulla strada per ricevere un consenso non indifferente. Quel che invece è evidente è il grande consenso popolare che il trumpismo ancora raccoglie. Che fare, quindi? Assecondare, andando in rotta collisione con le istituzioni democratiche? Oppure tentare di sopprimere, consci del costo politico che comporterebbe? Queste sono le domande per ora irrisolte che guidano la sorte di un partito elettoralmente ancora decisamente forte.