In Israele si recita il Kaddish per la XXIII Knesset

Pubblicato il 30 Dicembre 2020 alle 13:03 Autore: Matteo Bulzomì

Alla fine è successo. Il 23 dicembre il tandem Netanyahu-Gantz si è sciolto, con una crisi di governo che porterà a nuove elezioni, le quarte in due anni. Ad intonare il Kaddish (la preghiera ebraica per i defunti) della XXIII Knesset sarà la legge di bilancio, la cui mancata approvazione nei tempi stabiliti dalla Corte Suprema ha comportato lo scioglimento della Camera. Naturalmente le frizioni non sono mai state estranee ai due alleati al governo, ragion per cui fin da subito Netanyahu e Gantz si sono accusati a vicenda di aver deliberatamente sabotato il governo.

Due anni di campagna elettorale

Tutto ebbe inizio con le elezioni della XXI Knesset, tenutesi l’8 aprile 2019. Netanyahu venne confermato Primo Ministro, ma iniziò un periodo di instabilità destinato a durare fino ad oggi. Nonostante la ciclicità con cui gli israeliani furono convocati ai comizi (8 aprile 2019, 17 settembre 2019 e 2 marzo 2020), è possibile tratteggiare alcune tendenze. La prima è la figura di Netanyahu come ago della bilancia. “Bibi” infatti, oltre a rimanere il capo indiscusso del suo partito, il Likud, è sempre riuscito ad attirare nella sua compagine di governo i diversi volti della destra israeliana. Nei suoi governi c’erano la destra Haredi di Shas e Giudaismo Unito della Torah, i due partiti degli ebrei ultraortodossi, i sionisti ortodossi della Casa Ebraica, la Nuova Destra di Ayelet Shaked e Naftali Bennett, votata da laici e religiosi, e i più moderati esponenti di Kulanu. La seconda tendenza è l’affermarsi del centro come principale forza di opposizione. I due partiti centristi, Blu e Bianco e Yesh Atid-Telem, avevano come punti di riferimento Benyamin Gantz e Gabi Ashkenazi. Pur riuscendo a tallonare il Likud, le due formazioni si sono sempre rivelate incapaci di disarcionare Netanyahu. Mancava infatti ai due leader il carisma di Bibi, così come un forte sostegno del tradizionale partito di opposizione al Likud: i Laburisti. Questo ci porta alla terza tendenza: la veloce e drammatica decadenza del Partito Laburista. Principale partito di governo nei primi tre decenni dello Stato Ebraico, il Partito Laburista conquistò alle elezioni dell’8 aprile soltanto 6 seggi, che riuscì a mantenere cinque mesi dopo soltanto in coalizione con i liberali di Gesher e che si dimezzarono il 2 marzo dell’anno successivo.

La svolta

La tornata elettorale del 2 marzo portò qualcosa di nuovo. Innanzitutto divenne più marcato lo scarto tra il numero dei parlamentari del Likud rispetto ai centristi (36 contro 31). Divenne più marcata anche la frammentazione partitica (13 partiti adesso, 9 e 11 nelle legislature precedenti). Fu l’emergenza coronavirus a portare ad un superamento della crisi. Gantz fece cadere il tabù che vietava qualunque accordo con Netanyahu, la cui credibilità era compromessa dai processi giudiziari a suo carico. In questo nuovo, strano matrimonio Netanyahu portò in dote i voti dei parlamentari del Likud, dei partiti ultraortodossi Shas e Giudaismo Unito della Torah, dei sionisti ortodossi della Casa Ebraica e dei più moderati esponenti di Derekh Eretz, mentre Gantz portò i voti dei centristi, dei liberali di Gesher e di due dei tre parlamentari laburisti.

Un abbraccio fatale

Il nuovo governo avrebbe avuto due premier che si sarebbero avvicendati a rotazione. Netanyahu iniziò a rivestire la carica di Primo Ministro, mentre Gantz divenne Ministro della Difesa e Primo Ministro Alternato, carica creata modificando la Legge Fondamentale. Gli attriti non tardarono ad arrivare. Tra gli elementi di divergenza principali figurava l’approccio all’annessione della Valle del Giordano e la regolarizzazione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Netanyahu aveva fatto questa promessa ai coloni e ai sionisti più oltranzisti, che rischiavano di votare partiti più a destra guidati da ex alleati del Likud, come Yamina, guidato da Naftali Bennett, Israel Beitenu, guidato da Avigdor Liberman e La Casa Ebraica, guidato da Rafi Peretz. Mentre Netanyahu desiderava completare l’annessione in breve tempo alla fine di luglio, Gantz preferiva temporeggiare in attesa del via libera degli Stati Uniti (e dei loro alleati arabi), che non arrivò mai. Altri contrasti sorsero nelle settimane successive con la stipula degli Accordi di Abramo. Il Primo Ministro Alternato non fu informato dalla leadership del Likud dell’andamento dei negoziati, cosa che creò una situazione di imbarazzo. I rancori maturati si riverberarono nei successivi dibattiti di governo, e l’impasse sulla legge di bilancio fece saltare il banco.

E adesso?

I primi sondaggi sulla composizione della nuova Knesset sono stati pubblicati il 24 dicembre dal quotidiano Maariv e il 27 dall’emittente televisiva Channel 12. Lo scenario è in linea con le tendenze delle ultime legislature, anche se con molte novità. In primis proseguirà il dérapage a destra dell’elettorato israeliano. A farne le spese sarà anche lo stesso Likud, di cui si prevede che perderà tra i dieci e gli otto seggi. Peserà molto la concorrenza di due partiti, il già citato Yamina, che vedrà quasi triplicare il numero di parlamentari espressi, ma soprattutto Tikvah Chadasha, partito nato da una scissione interna al Likud guidata da Gideon Sa’ar, che si prevede passare dai 3 parlamentari di oggi fino a sfiorare i 20 seggi. Se Netanyahu piange, Gantz non ride. Il leader di Blu e Bianco infatti pagherà cara la scelta di essersi fidato del capo del Likud, e, ironia della sorte, anche la sua formazione perderà tra i dieci e i nove parlamentari. I suoi compagni di Yesh Atid-Telem riusciranno a tamponare le perdite, perdendo circa un paio di parlamentari. Ma la conseguenza più importante di questa svolta sarà che i due partiti di centro non totalizzerebbero, secondo le più ottimiste stime di Channel 12, i 21 parlamentari (Maariv sostiene che si fermeranno a 19), ragion per cui non saranno in grado né di tallonare Netanyahu né di porsi come argine alla dirompente avanzata delle destre. Quanto alla sinistra, la sua stagnazione andrà avanti inesorabilmente. Dato più simbolico che di qualche importanza sostanziale sarà l’uscita del Partito Laburista dalla Knesset per la prima volta nella storia. Soltanto Meretz sarà l’unico partito di sinistra a crescere. Ciò si può spiegare in parte tenendo in considerazione un altro dato: il leggero calo dei partiti arabi, uniti nella Lista Araba Unita, destinata a scendere da 15 a 11 secondo entrambe le stime. Se per gli arabi non è tabù votare Meretz, partito ebraico con alcuni esponenti arabi, allo stesso modo è molto improbabile che essi forniranno un enorme contributo alla crescita di questo partito. Un contributo più grande verrà verosimilmente dato dai membri più a sinistra del morituro Partito Laburista. Resteranno stabili tre piccole ma importantissime forze politiche: i due partiti Haredim e Israel Beitenu, che vedranno pressoché invariato il numero di parlamentari espressi. Poiché qualsiasi leader che riuscirà ad imporsi a destra lo potrà fare soltanto in una coalizione con più forze politiche, il ruolo di questi tre partiti sarà decisamente importante in qualsiasi scenario.

Il ruolo dell’amministrazione Biden

Qualsiasi indirizzo il prossimo governo israeliano deciderà di prendere, dovrà fare i conti con il convitato di pietra: Joe Biden. Il 46esimo presidente USA, che si insedierà il 20 gennaio, non avrà con Israele un atteggiamento accomodante come il suo predecessore. Se da una parte egli ha dichiarato che non intende spostare l’ambasciata americana da Gerusalemme, dall’altra è noto il suo scetticismo nei confronti di qualsiasi rivendicazione israeliana sulla Cisgiordania, sia essa circoscritta agli insediamenti o a vaste porzioni di territorio come la Valle del Giordano. Questo, unito al suo desiderio di riportare israeliani e palestinesi ai tavoli negoziali, priverà chiunque cerchi i voti dell’elettorato sionista estremista di un’importante sponda politica.

Quale futuro per Bibi?

Tutti gli occhi sono puntati su Netanyahu. Il settantunenne Primo Ministro sembra non intenzionato a lasciare la scena. Pesano infatti i numerosi processi giudiziari a suo carico, per i quali l’immunità e il prestigio della sua carica sono ancora molto preziosi. Tuttavia la sfida questa volta sarà più difficile. Bibi dovrà ancora una volta fare leva sul suo carisma non solo per far guadagnare voti al suo partito, ma anche per poter formare una coalizione di governo. Tre fattori renderanno il compito più arduo. Innanzitutto i capi degli altri partiti di destra, quasi tutti suoi ex partner di governo, non sembrano più intenzionati a dargliela vinta. La sua rinuncia ad annettere la Valle del Giordano per ottenere in cambio la pace con quattro paesi del mondo arabo, cui potrebbero eventualmente aggiungersene altri, non gli è stata mai perdonata dal sionismo oltranzista.

In secondo luogo Bibi non potrebbe sfruttare contro le forze di destra il suo repertorio di accuse riservate alla sinistra e al centro. Come si potrebbe infatti sostenere che Naftali Bennett, Gideon Sa’ar, Rafi Peretz o Avigdor Liberman collaborino con la minoranza araba per tramare contro Israele? Infine, la mancata riconferma di Donald Trump alla Casa Bianca ha privato il capo del Likud di un sostegno importante. Qualunque sua promessa in materia di politica territoriale in Cisgiordania non avrà più lo stesso significato di prima, perché dovrà tenere conto dell’opinione dell’alleato statunitense che, come s’è già detto, non è più disposto a concedere tutto. Tuttavia Netanyahu si è rivelato nel corso della sua carriera in grado di decidere le sorti di una tornata elettorale anche all’ultimo minuto, ragion per cui è avventato qualunque giudizio che lo dia per spacciato. La campagna elettorale è solo agli inizi e si promette lunga e difficile per tutti.