Le ombre sulle elezioni palestinesi

Pubblicato il 24 Aprile 2021 alle 09:28 Autore: Matteo Bulzomì
La media dei sondaggi al 25/03/12

Il crescente isolamento in cui i leader palestinesi si sono trovati all’indomani della firma degli Accordi di Abramo li ha spinti a riprendere il dialogo. E così lo scorso ottobre Hamas e Fatah, le due principali fazioni politiche dell’Autorità Nazionale Palestinese, hanno raggiunto un accordo di riconciliazione. La principale clausola del patto prevedeva l’organizzazione di elezioni parlamentari e presidenziali secondo un sistema proporzionale. Qualche mese più tardi, nel febbraio del 2021, i due partiti hanno stabilito una data in cui tutti i Palestinesi sarebbero stati chiamati al voto. Il 22 maggio era la data scelta per le elezioni parlamentari, mentre il 31 luglio sarebbe stato eletto il nuovo Presidente. Da allora, tuttavia, molti ostacoli si sono frapposti tra i Palestinesi e le urne, tanto che oggi si parla di rinvio o annullamento dei comizi.

I timori di Abu Mazen

Nonostante la linea ufficiale di Fatah sostenga la necessità di garantire le elezioni, proprio da questa fazione vengono i dubbi sul 22 maggio. Il partito del Presidente Abu Mazen infatti rischierebbe di perdere le elezioni, come era successo nel 2006, quando i rivali di Hamas erano passati in testa. Il governo di unità nazionale nato per conciliare le due fazioni aveva avuto vita breve, segnando una divisione che aveva condizionato non solo i rapporti tra i due partiti ma anche tra i due territori in seno all’ANP, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. L’incubo di una nuova vittoria di Hamas perseguita ancora oggi la leadership di Fatah. Secondo diversi sondaggi, l’affluenza alle urne, soprattutto tra i giovani, potrebbe essere molto alta. Quanto ai risultati, è difficile fare previsioni: lo scarto tra i due attori non è ampio e si prevede una lotta all’ultimo voto.

La questione di Gerusalemme est

La motivazione ufficiale dietro alla proposta dei dirigenti di Fatah è che nessuna elezione sarà valida se non vi parteciperanno i cittadini di Gerusalemme est. La questione non è assolutamente di poco conto. Firmando gli Accordi di Oslo Israele si era formalmente impegnato a garantire questo diritto, e così nel passato è stato, almeno in parte. Alcuni cittadini palestinesi della parte orientale della città hanno votato per due volte, nel 1996 e nel 2006. In entrambi i casi la capacità delle postazioni di voto non era assolutamente in grado di assorbire tutti i Palestinesi della città. Il risultato è che solo una ristrettissima minoranza di loro ha effettivamente votato. Questa volta la questione è più complicata. Il trasferimento dell’ambasciata statunitense nella Città Santa ha rafforzato la posizione di coloro che soprattutto nella destra israeliana, non sono disposti a rinegoziare lo status di Gerusalemme, ritenuta l’unica e indivisibile capitale di Israele. Permettere ai residenti palestinesi di votare significherebbe implicitamente mettere in questione l’idea di unicità e indivisibilità. Per i Palestinesi invece qualsiasi elezione senza seggi nella città significa riconoscere implicitamente come valida la posizione israeliana. Secondo Abu Mazen quindi occorrerebbe sciogliere questo nodo prima di qualsiasi ulteriore mossa politica.

Il ruolo di Israele

Se Ramallah piange, Tel Aviv non ride. Così come ad Abu Mazen, anche al governo israeliano, qualunque esso sia, lo spettro di una vittoria di Fatah toglie il sonno. Avere un governo ostile a Gaza crea già problemi alla sicurezza delle città israeliane dei dintorni; averlo anche alle porte della capitale sarebbe un incubo. Per questo motivo Israele non ha mai visto di buon occhio i vari tentativi di riavvicinamento tra Fatah e Hamas. L’unico suo interlocutore infatti è il primo, con cui collabora in molti settori. Di conseguenza, nessuna tornata elettorale potrà avere la benedizione israeliana fintanto che la vittoria di Fatah non sia più che sicura. E questo non è certamente il caso. Il nervosismo degli Israeliani è dimostrato da diverse ondate di arresti verificatesi negli ultimi giorni. Centinaia di persone sono state arrestate nella prima metà di aprile in diversi raid compiuti in Cisgiordania, tra cui alcuni esponenti di Hamas. Il 17 aprile la stessa sorte è toccata a tre candidati vicini a Fatah mentre cercavano di fare un comizio in un hotel di Gerusalemme. Fornire l’assist all’attendismo di Abu Mazen rischia tuttavia di rendere la situazione più complicata. Se ai giovani venisse impedito di esprimere il proprio attivismo pacificamente tramite il voto, è molto probabile che essi lo esprimeranno in maniera violenta, come implicitamente sostenuto da Khalil al-Hayya, esponente di Hamas. Dall’altro lato, un’eventuale vittoria di Hamas o anche solo un ingresso in una coalizione di governo metterebbe quantomeno in discussione la collaborazione israelo-palestinese, e soprattutto quella in materia di sicurezza, tanto cara a Israele.

La comunità internazionale

Anche nel mondo della diplomazia le opinioni sulla necessità di consentire il voto palestinese sono discordanti. La Casa Bianca, che nel 2006 aveva esercitato pressioni su Israele affinché non intralciasse lo svolgimento delle elezioni, questa volta tace. Il Presidente Biden in questi mesi è impegnato con l’emergenza coronavirus in patria e con le questioni ucraina e iraniana all’estero. Ovviamente questo suo scarso impegno nella faccenda ha deluso quanti vedono nella sua presidenza un cambio di rotta rispetto a quella di Trump. Decisamente diversa è l’opinione dell’ONU, che vede nelle elezioni e nella creazione di un governo unificato palestinese un passo importante verso la pace con Israele. Anche l’Unione Europea la pensa così e per questo ha chiesto a Israele il permesso di organizzare una missione di monitoraggio del voto. La richiesta non ha ancora ricevuto risposta da Tel Aviv, ragion per cui una missione vera e propria è difficile che si faccia. La soluzione più probabile è l’invio di una piccola, innocua delegazione. Ancora più diviso è il mondo musulmano. Turchia e Qatar, vicini a Hamas, premono perché i Palestinesi possano andare alle urne. I vicini di Israele, la Giordania e l’Egitto, invece, temono che una vittoria di Hamas rafforzi l’opposizione islamista in casa con effetti destabilizzanti.