Regionali e referendum: vincitori, sconfitti e nuovi scenari

Pubblicato il 26 Settembre 2020 alle 20:43 Autore: Giovanni Andrea Cerrina

Le regionali sono sempre delle elezioni particolari: contano i partiti nazionali ma anche i candidati, i leader di partito cercano di rafforzare la propria posizione mentre i capi corrente cercano di minarla, ognuno rivendica vittorie diverse facendo sembrare tutti vincitori.

Se già di per sé le elezioni regionali sono degli eventi peculiari, lo sono ancora di più durante una pandemia, se poi ad esse si aggiunge un referendum costituzionale su un tema caldo come quello del numero dei parlamentari ecco che lo scenario si complica ulteriormente.

Chi ha vinto

I vincitori indiscutibili di questa tornata sono stati i presidenti di regione uscenti: tutti e quattro quelli ripresentatisi sono stati rieletti. Sebbene sia molto comune che nelle elezioni amministrative l’uscente venga riconfermato, è innegabile che l’emergenza covid-19 abbia fatto aumentare i consensi dei presidenti di regione, specie di Zaia e De Luca che si sono esposti molto acquisendo consensi anche a livello nazionale.

A livello nazionale chi sono stati però i vincitori? Sono tre, ognuno per motivi diversi: Zingaretti, Meloni e il presidente del Veneto.

Zingaretti vede rafforzata la sua posizione di segretario: nelle sei regioni principali al voto (Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia) le liste del Partito Democratico hanno totalizzato 1.774.520 voti, affermandosi come primo partito sopra la Lega che ne ha ottenuti 1.240.245. Inoltre la vittoria di tre regioni su sei, giunta alquanto inaspettata, ha fatto apparire questa tornata elettorale come una vittoria schiacciante nonostante la perdita delle Marche, regione facente parte della c.d. zona rossa.  Il posizionarsi a favore del sì nel referendum poi lo ha messo nelle condizioni di rivendicare anche quella come una vittoria ed al contempo ha placato in parte i 5 Stelle, evitando così (almeno per il momento) scontri interni al governo dovuti alla loro inquietudine.

In sostanza queste elezioni da una parte hanno placato le opposizioni del centrodestra (che dal giorno del voto hanno quasi smesso di chiedere elezioni anticipate), dall’altra hanno ridimensionato i partner di governo senza però mettere a rischio la tenuta della maggioranza e dall’altra ancora hanno messo completamente a tacere le opposizioni interne che avevano iniziato a muoversi per arrivare preparate in caso di sconfitta.

La Meloni vede la sua posizione estremamente migliorata: l’unica regione strappata al centrosinistra è stata presa con un presidente (Acquaroli) del suo partito, FdI ha subito un’importante avanzamento rispetto alle europee del 2019 e l’attuale leader della coalizione ha subito una caduta molto pesante.

Nelle Marche Fratelli d’Italia ha preso il 18,7% contro il 5,83% delle europee, in Toscana il 13,5% contro il 4,93%, in Campania il 6% contro il 5,82% (ma prendendo più della Lega, caduta qui dal 19,21% al 5,7%), in Puglia il 12,6% contro l’8,89% (risultando anche qui il primo partito della coalizione), in Liguria il 10,9% contro il 5,67% ed infine in Veneto il 9,6% contro il 6,76%. Oltre ad essere cresciuto ovunque, FdI ha totalizzato 951.401 voti: in queste elezioni è stata più grande la distanza tra PD e Lega che non quella tra Lega e FdI. Inoltre va notato come nelle due regioni del sud al voto la Meloni abbia superato la Lega, lasciando intravedere uno scenario futuro in cui, come nella seconda repubblica ma senza Berlusconi, la Lega prende voti al nord e FdI (erede di Alleanza Nazionale) al sud.

Infine Zaia nella sua regione ha semplicemente trionfato. Oltre ad essere stato riconfermato con il 76,8% dei voti (record storico), la sua lista ha preso il 44,6% dei voti contro il 16,9% della Lega. Per dare un’idea delle dimensioni di questa vittoria basti pensare che i 916.087 voti presi dalla sua lista nel solo Veneto non solo sono sostanzialmente pari a quelli presi da Fratelli d’Italia e poco inferiori a quelli presi dalla Lega nel totale delle sei regioni, ma sarebbero abbastanza per superare quasi la soglia di sbarramento nazionale (se una lista avesse preso quel numero di voti nel 2018 avrebbe preso infatti il 2,79%). Se a questo si aggiunge il costante calo della Lega nell’ultimo anno, il fatto che Zaia risulta il leader più popolare del centrodestra a livello nazionale e le inchieste che stanno colpendo la Lega non ci sarebbe da stupirsi se il presidente del Veneto stesse pensando a sostituire Salvini, magari una volta passata la tempesta giudiziaria.

Gli sconfitti

I grandi sconfitti di questa tornata elettorale sono due: Salvini e Renzi.

Il segretario della Lega dopo un anno di calo nei sondaggi ha subito un’altra grande delusione. Convinto alla vigilia di elezioni di “vincere 7 a 0” ha pareggiato 3 a 3 nelle regioni maggiori, perdendo nella regione su cui aveva puntato di più (la Toscana) e sopratutto non eleggendo nessun presidente di regione della Lega (se si esclude Zaia, che come abbiamo visto pur essendo della Lega non è stata una buona notizia per Salvini). Oltre a non essersi confermato come abbiamo visto come primo partito, vi è stato un calo notevole rispetto al 2019, nella roccaforte veneta il partito è stato superato quasi tre volte dalla lista civica del presidente e rivale Zaia e in ben due regioni è stato superato da Fratelli d’Italia, che si conferma ancora una volta essere il motore della coalizione.

In Veneto la Lega è passata dal 49,88% al 16,9%, in Liguria dal 33,8% al 17,1%, in Toscana dal 31,48% al 21,8%, nelle Marche dal 37,98% al 22,4%, in Campania dal 19,21% al 5,7% e in Puglia dal 25,29% al 9,6%. Sebbene le regionali non siano elezioni di stampo nazionale (o europeo), e sebbene in esse intervengano molti fattori quali ad esempio il candidato, è innegabile sopratutto alla luce della crescita di Fratelli d’Italia che si tratti di un vero e proprio crollo, il quale come detto potrebbe portare in un arco temporale medio addirittura alla sua sostituzione come leader della Lega.

Renzi è il secondo grande sconfitto. Il risultato migliore conseguito è stato il 4,5% preso in Toscana, da dividere con +Europa e non imputabile al c.d. voto utile dato che era in coalizione con il PD. Oltre al fatto che si tratta della regione di appartenenza di Renzi (sua teorica roccaforte) ed al fatto di trovarsi ben al di sotto del 10% auspicato, la situazione si aggrava ulteriormente se si considera che Italia Viva non è stata determinante per la vittoria di Giani, avendo questo vinto con un margine (8,1%) ben più alto di quanto raccolto dalla lista dell’ex primo ministro. Inoltre la lista di Renzi si è dimostrata non essenziale nemmeno nelle altre regioni: in Puglia Emiliano ha vinto nonostante la candidatura di Scalfarotto (che ha raccolto solamente l’1,6% dei voti), in Campania il margine è stato tale da rendere qualsiasi lista non essenziale e nelle altre lo scarto tra i candidati di centrodestra e quelli di centrosinistra è stato ben più ampio dei voti raccolti da Italia Viva.

Alla luce di tale risultato ci sarebbe da chiedersi quanto la presenza di Italia Viva giovi al centrosinistra: quanti voti si perderebbero escludendolo dalla coalizione? Quanti se ne recupererebbero con il voto utile (di cui Renzi è stato un grande promotore in passato)? Quanti se ne guadagnerebbero dai delusi di sinistra e dal MoVimento 5 Stelle escludendolo? Fintantoché i numeri in parlamento saranno quelli attuali Renzi sarà imprescindibile, ma a fine legislatura se la situazione non dovesse cambiare il leader di Italia Viva potrebbe rischiare la propria carriera politica.

Il MoVimento 5 Stelle nel limbo

Di difficile lettura è invece la posizione del MoVimento 5 Stelle: se da una parte il referendum è innegabilmente una loro vittoria dall’altra i risultati delle regionali sono a dir poco desolanti: 660.936 voti raccolti nelle sei regioni principali, 255.151 voti in meno di quanto raccolto dalla sola lista civica di Zaia e nessun presidente di regione eletto.

Che il MoVimento 5 Stelle performi peggio alle amministrative non è una novità, ma una sconfitta tale deve far aprire una riflessione sull’assenza di classe dirigente locale: in Campania (la regione più popolosa al voto, nonché roccaforte del M5S) i 7 consiglieri eletti hanno fatto registrare una media di 5.689 preferenze, il consigliere che ne ha prese di meno (Vincenzo Ciampi) ne ha ottenute 1.673, ovvero meno di quante ne hanno conseguite diversi consiglieri comunali di Napoli di altri partiti.

In questa situazione si attende la nomina del nuovo (o dei nuovi) capo politico, nel frattempo se Di Maio esulta per il referendum altri, su tutti Di Battista, lamentano la sconfitta delle regionali ed invocano un cambio di passo (e, fra le righe, di dirigenza).

Un nuovo sistema politico?

Che la mancanza di classe dirigente locale del M5S abbia riportato la politica locale italiana ad uno schema bipolare è ormai chiaro con queste elezioni, ma come ne esce la situazione a livello nazionale?

Quello che pare delinearsi è uno scenario a un polo e due mezzi, dove da una parte un centro destra di composizione chiara ambisce a guidare il paese ed ha i numeri per farlo (ma è in calo), dall’altra il centrosinistra a composizione variabile cresce ma fatica a sfondare e sopratutto ha bisogno per vincere del MoVimento 5 Stelle, il quale difficilmente nel breve o medio termine potrà tornare a essere competitivo da solo e deve dunque convivere con il centrosinistra.

Ciò che appare evidente è come i protagonisti degli ultimi anni di politica siano ormai marginali o sulla via del diventarlo: Berlusconi è ormai un ricordo (vi eravate accorti della sua mancanza nell’articolo?), Renzi è stato rottamato, Salvini è sempre più solo e Di Maio è prossimo a perdere del tutto il suo ruolo. Alcuni protagonisti futuri già stanno emergendo: Meloni, Zaia e Zingaretti su tutti.

Stanno cambiando i rapporti di forza e i leader: stiamo tornando alla seconda repubblica o la scorsa legislatura è stata una fase di transizione tra la seconda repubblica e la terza che si sta delineando?

L'autore: Giovanni Andrea Cerrina